weople, l’ad siliprandi: “con i nostri dati non diventeremo ricchi. ma possiamo fare la rivoluzione”
Con il Gdrp possiamo chiedere alle grandi aziende le nostre tracce digitali. Ma come si fa? E si può guadagnare? Ne parliamo con Silvio Siliprandi, sociologo e ideatore di Weople, la prima “cassaforte virtuale” made in Italy.
Miei i dati, mio il guadagno. Se sono il proprietario della più o meno vasta mole di informazioni sparse tra social network, motori di ricerca e carte fedeltà, perché mai non dovrei essere proprio io a intascare la parte che mi spetta? L’idea è semplice, e per questo accattivante. La novità del mercato italiano è Weople, sviluppata dalla start up milanese Hoda di Silvio Siliprandi, sociologo, ex presidente e amministratore delegato di GfK Eurisko. Una «banca dati virtuale» articolata in cassette di sicurezza con l’obiettivo di «aiutare le persone ad avere il controllo delle proprie informazioni personali e consentire di ottenere un riconoscimento economico per i dati che scelgono di investire». Ma come funziona? E quanto si può guadagnare? Ne parliamo con Siliprandi.
Con l’approvazione del Gdrp, il regolamento dell’Ue su dati personali e privacy, è cresciuta la consapevolezza che ogni nostro clic è «sfruttato» da un colosso tecnologico. Ma è così semplice entrare a far parte dell’economia dei big data?
«Tutti guadagnano dai nostri dati, tutti i giorni. Nelle aziende non si parla d’altro che di “monetizzare i dati”, che poi vuol dire guadagnare da quelli che già hanno in pancia. Ma quei dati sono nostri. Allora io dico, partecipiamo anche noi».
Quando e come è nata l’idea di Weople?
«È nata cinque anni fa. Ero all’Upa (Utenti pubblicità associati, che riunisce le più importanti aziende industriali, commerciali e di servizi che investono in pubblicità ndr) e mi fanno leggere le bozze del Gdpr. Negli anni passati l’Unione Europea ha chiesto diversi pareri ad aziende e associazioni europee. Ho pensato: “Se passa è una rivoluzione. Ma tutela le persone. Non passerà mai”. Poi però è passato».
Anche se forse ci sono gli strumenti per farla, la rivoluzione non è ancora iniziata.
«C’è bisogno di qualcuno che aiuti le persone. Non perché sono sceme, ma perché hanno altro da fare. Quando mi sono trovato a sfogliare le bozze per il Gdpr, ho iniziato a pensarci. Eccoci qui».
Ci sono tante app, e anche annunci di app, che partono dal presupposto che qualsiasi dato tu abbia lo puoi vendere da solo. Come se esistessero tante piccole borse.
«Sono quasi tutte piattaforme basate sulla tecnologia blockchain e ti mettono a disposizione una piattaforma . Tu insomma decidi di vendere te stesso, in chiaro. Il che va bene, ma noi siamo partiti da un pensiero totalmente diverso».
Cioè?
«Le persone ancora non hanno i propri dati. Né in Italia né nei Paesi che passano per essere i più evoluti. E ancora per un bel po’ non li avranno. Difficile che la maggioranza delle persone colleghi che qualsiasi cosa fa nella vita lascia una traccia, e quindi un dato digitale. Dalla spesa con la carta di credito alla carta fedeltà, i viaggi su Facebook e Google, sono tutte informazioni su di noi. Ancora più difficile che qualcuno si prenda la briga di recuperare tutti i pezzetti. Così noi di Hoda abbiamo deciso di prendere coraggio e fare qualcosa che sia assolutamente nel Gdpr, ma dal lato della persona, non delle aziende. Per esempio partendo dall’articolo 20».
È il diritto alla portabilità dei dati. «L’interessato ha il diritto di ricevere in un formato strutturato, di uso comune e leggibile da dispositivo automatico i dati personali che lo riguardano».
«Ognuno di noi ha il diritto di chiedere una copia dei propri dati. Ma farlo da soli, azienda per azienda, non è semplice. Noi lo facciamo per tutti. Il nostro è un contratto. Come se si aprisse un conto in banca, senza soldi. Noi agiamo per tuo conto, sei tu che scrivi a Esselunga, Carrefour oppure Auchan per chiedere copia dei tuoi dati. Se si mette dentro la carta d’identità, come il 40 per cento dei nostri utenti ha già fatto, hai una delega. Che poi è quello che le aziende chiedono come controllo».
Ed è sempre facile ottenerli?
«No. Almeno, non come dovrebbe. Alle aziende che detengono i nostri dati il Gdpr non è andato giù. Si sono adeguate negli ultimi mesi, nemmeno tutte. L’adeguamento normalmente è: “Come faccio a fare le cose corrette ma ad andare avanti come prima?” Contano tutti sul fatto che nessuno chiederà i propri dati. Poi siamo nati noi, che organizzano masse di persone che rompono le balle. E c’è anche la possibilità di chiedere alle aziende di non vendere i propri dati a terzi. Farlo da soli è dura, ma tutti insieme è più semplice».
E poi voi li vendete a un terzo?
«No. Noi li rendiamo anonimi, li mischiamo, cerchiamo di farli fruttare sul mercato senza vendere l’identità di nessuno. A questo punto il 90 per cento del valore generato, che è variabile, lo restituiamo pagate le spese. Che stanno al massimo al 10 per cento».
Ma quanto valgono i nostri dati? E quanto si può guadagnare?
«La verità è che non si sa bene. Il mercato italiano vale due miliardi e 900 milioni. Cifre grosse, negli altri paesi europei è un valore ancora più alto. Dipende essenzialmente da quanto il digitale supporta, governa e indirizza l’acquisto e la vendita di spazi pubblicitari e contenuti. La prospettiva è che raggiunga e superi i 7 miliardi. Quanto si può ottenere, di questa cifra? La verità è che non lo sa nessuno. Di certo di più di quel che è adesso, che è zero».
Insomma, non si diventa ricchi. Due le obiezioni. Per poter vendere dei pacchetti di dati, servono i grandi numeri. E la paura è che poi siano venduti ad altri.
«Tecnicamente non vendiamo i dati delle persone. Siamo nati da poco, ora gli iscritti sono quattromila. Naturalmente il nostro obiettivo è crescere è il più possibile. Puntiamo ad avere dai 300 ai 350 mila iscritti per la metà del prossimo anno. Ma noi non li vendiamo perché non ne abbiamo bisogno. Ci sono due strade per guadagnare, senza vendere i dati personali né a pacchetto né singolarmente».
E quali sono?
«Il primo è l’enrichment dei database altrui. Per esempio, i giornali hanno un editore con una concessionaria. Le aziende prima di metterci della pubblicità vogliono sapere non solo quanti, ma chi sono i suoi lettori. Consumano il prodotto A, quello B? Magari invece gli interessano i non consumatori. Se a Weople si iscrivono 15, 10mila lettori di quel quotidiano, senza mai dire chi sono, posso però modellizzarli con le segmentazioni che interessano a questa o a quella azienda. Posso costruire dei modelli statistici, con una serie di informazioni cruciali stimate. Non sono più dati personali».
Insomma non sono numeri enormi, ma buoni.
«Non ci interessano i dati, ma il sapere che viene fuori dai dati. Delle probabilità studiate bene. In questo caso invece di dare un soldino a ognuno, facciamo un’estrazione periodica. Non per tutti, ma consistente. E questo è il primo modo di guadagnare».
Con Facebook, Twitter e Instagram si guadagnano 20 Wecoin, altri 15 per ogni carta fedeltà, che contribuiranno a concorrere a delle vincite con estrazione. E il secondo modo?
«Tu azienda compri da me i contatti, con un’offerta personalizzata. Se disposto a darmi otto, dieci centesimi per ognuno? Se tu accetti, ti va nel salvadanaio, Dove sta scritto che per mandarmi una pubblicità devi pagare un altro, e non me? Deve essere così per forza? Il digitale “disintermedia” per definizione. Con il digitale puoi creare platee infinite di pubblico, con una piattaforma di contatto diretto con le aziende».
Il messaggio è che non si diventa ricchi, ma si può fare la rivoluzione.
«Esatto. Questa non è un’azienda per diventare ricchi. Chi investe nel digitale ha il mito di diventare non milionario, ma miliardario. Il nostro obiettivo invece è fare bene, fare qualche cosa di utile. Non è automatico. Facciamo da banca, avviciniamo le aziende alle persone. Siamo abituati a dire il signore dei dati. Però c’è la persona, che sta sopra. Ognuno di noi ha tutto, loro ne hanno solo un pezzo. Dobbiamo unirci e esserci. Solo così possiamo far valere i nostri diritti».
di Nadia Ferrigo, lastampa.it
Vai all’articolo